
Convinto che «fare musica sia comunicare qualcosa a qualcuno con la propria arte», Gabriele Buonasorte, sassofonista siciliano, classe 1980, è arrivato al suo esordio discografico alla guida di un quartetto, firmando da compositore – «nel lavoro precedente avevo affrontato da arrangiatore la musica di altri» – un lavoro che guarda oltre i confini di generi e stili spesso autoreferenziali . «Ho sempre interpretato il jazz come una straordinaria miscellanea di linguaggi differenti da plasmare liberamente attraverso l’ispirazione del momento. Forward nasce dal desiderio di scrivere musica che non potesse essere racchiusa dentro una qualsivoglia etichetta di stile», dice.
Compositore e arrangiatore, sound designer, insegnante chi è Gabriele Buonasorte? «Un grandissimo testardo, dotato di un incommensurabile passione per la musica che è la sua vita, il suo lavoro». Come raccontare la sua storia? «Partendo dalla Sicilia dove sono nato e cresciuto, a Siracusa. Dove la mia passione per la musica è iniziata prestissimo, avevo 7 anni quando iniziai con le prime lezioni. In Sicilia sono rimasto fino al diploma di conservatorio, poi sono emigrato a Roma, per continuare a studiare, mi sono specializzato al Santa Cecilia, e mettermi in gioco, provare ad entrare nel giro del jazz. Roma mi ha ripagato di tutto, è stata per me luogo di incontri ed opportunità eccezionali. Qui ho iniziato a fare della mia grande passione il mio lavoro, insegno, ho aperto un mio studio di pre e post produzione, sono sound designer, qui sono nati tutti i miei progetti musicali dal Gershwin Trio al Gabriel Rivano Quartet, il quintetto di Lello Califano con Leo Garcia. E poi Forward, conseguenza dell’incontro con Gianni Barone e la sua Nau Records, e come arrangiatore, il progetto musicale di Luca Seta in uscita per la Togu il prossimo novembre». A quale pubblico si rivolge il Buonasorte musicista? «Soprattutto alle nuove generazioni, il riscontro lo abbiamo durante i nostri live. Ma credo sia accessibile a un pubblico più vasto, eterogeneo e senza particolari distinzioni di età pervasa com’è di ritmo. La mia è musica che non vuole chiudersi dentro una tipologia ben definita di pubblico o di genere ma comunicare attraverso un linguaggio semplice e lineare». Semplice e lineare, popolare nel senso più alto, ma comunque jazz. «Dire jazz oggi può significare tutto e niente. Trovo difficile e riduttivo associare il concetto a questa o quella corrente visto che oggi, pur mantenendo tracce della radice afroamericana, le direzioni prese dai jazzisti europei, e non solo, sono molto differenti. Per me è il jazz continua ad essere una straordinaria miscellanea di linguaggi differenti, da plasmare liberamente attraverso la propria ispirazione del momento. Un input straordinario appreso frequentando i seminari di Siena Jazz, lì mi si è aperto un mondo, ho conosciuto tantissimi musicisti dalle formazioni artistiche più disparate, ed ognuno di essi, a modo suo, suonava jazz». Arrivare dalla provincia, come si emerge in questa Italia dove sembrano imperare i talent show? «Credo che valgano ancora le buone idee, i collaboratori preparati che ti aiutano a realizzarle, e una buona dose di fortuna che fa essere al posto giusto al momento giusto. Sono arrivato a Roma dieci anni fa, in questo periodo sono cresciuto, ho avuto modo di farmi apprezzare da tante persone e di apprezzarne altrettante, in Sicilia non avrei mai avuto le stesse opportunità. Il sistema musicale italiano ruota quasi interamente intorno ai talent show, e, molto spesso, su illusioni costruite ad arte. Quante volte mi è stato chiesto da aspiranti allievi se fossero sufficienti uno o due anni di studio per poter fare il musicista, chiarissima conseguenza di una strategia di comunicazione che funziona, ahimè, perfettamente. Fortunatamente il mondo del jazz risulta coinvolto solo in minima parte da questo sistema, di contro, però, nessuno di noi diventerà mai ricco». Web e social network, un rapporto necessario? «Sì, ma senza farne un’ossessione. Ho Facebook da tempi immemori, da quando in Italia non lo aveva quasi nessuno e io lo utilizzavo per tenermi in contatto con i miei numerosi amici stranieri. Oggi ho anche una mia pagina ufficiale, oltre al sito. Il social network è diventato uno strumento di comunicazione impressionante, dai risvolti lavorativi potenzialmente di impatto, pochi clic e puoi veicolare tantissime informazioni sulla tua attività professionale e aumentare il numero dei tuoi followers, che non sono altro che persone e interessate alla tua musica. Un giorno probabilmente verranno a sentire un tuo concerto o compreranno un tuo disco, o ti metteranno in comunicazione con persone che difficilmente avresti potuto conoscere e contattare altrimenti. Yuotube lo uso solo come host di video che ho sulle mie pagine, non molto di più». Pubblicare dischi, recuperare date, gli scogli di sempre? «La vera difficoltà è pubblicare dischi in maniera seria. Trovare un’etichetta discografica che faccia produzione vera è molto difficile, mentre trovarne una che ti inserisca in un catalogo a tue spese è semplicissimo. Lo stesso discorso vale per il booking dei live. Preferiscono non rischiare, a livello discografico così come nel live. Qui da noi ogni anno si vedono girare quasi esclusivamente gli stessi nomi, a occupare i palchi dei festival o a pubblicare l’ennesimo tributo a non so più chi. I musicisti validi ci sono e ci sono progetti interessanti, però fanno una fatica dannata a trovare uno spazio che non sia sottopagato o praticamente gratis. I contributi pubblici scarseggiano e molti festival hanno paura di rischiare troppo inserendo nel programma il nome di uno sconosciuto anche se di talento». Un’isola deserta e un disco, quale? «Il mio Forward. E se ne posso portar due, Bitches Brew di Miles Davis».
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